mercoledì 6 febbraio 2013

RACCONTO Infeltrito numero 13 PRIMA DE PARLAR, TASI.


                                      


Mi pare è cominciato tutto quando ero da ragazzetta, tipo.
La maestra che chiede il mio diario, la sua penna che scava il foglio, la consegna della nota a casa.
Poi, il silenzio.

Mi sono ritrovata diversi giorni dopo in quello studio che non puzzava di nera pelle morta e fa i rumori dello scivolo come nei film. Era piuttosto una stanza normalissima. Poggiati a un muro bianco, c’erano una sedia e una scrivania di compensato rivestiti da una pellicola color cachi.
Dimenticato in un angolo, ragnatelizzava un lettino pieghevole sommerso da plichi di fogli e riviste specialistiche.
La puzza di candeggina da 500lire pizzicava le narici.
Ci dovrebbero ambientare un po’ di telefilm gli mericani, lì nell’ambulatorio psichiatrico della mutua, giusto perché la gente quando è poi che ci casca dentro non ci rimane così peggio. Ma gli mericani mica ci hanno la mutua mi sembra, per cui accontentatevi della mia descrizione, qualora doveste entrare lì dentro, nel reparto dei schiaccia cervelli dei poveri, che è così da poveri da non avere nemmeno il pendolo muto della mutua per fare la ipnosi.

Pure il dottore, mi pare che mi ricordo non era così fico come quelli della televisione, se escludiamo i conduttori delle aste su Postal Market, che allora sì, se pensiamo a uno di quelli allora ci andiamo vicini. Ce l’avete presente il tipo, lo so, quindi inutile dilungarsi in pesanti dettagli, che già i conduttori di Postal Market lo sono. Se Postal Market non l’avete mai visto, allora proiettatevi nella mente la immagine di Maurizio Costanzo che si stuzzica i buchi del naso.

Qual è il problema?
Gli ci ha chiesto il dottore.
Eh, la maestra dice che ci ha una difficoltà. Non le si toglie una parola dalla bocca a questa, e se prova a parlare, non fa discorsi tanto dritti. Però c’è un però: quando ha una penna in mano la pol pissar in leto e darghe da intendar a tuti che l’à sudà.

Allora il dottore non è che – sempre come fanno vedere nella televisione- guardava il nulla fuori dalla finestra, univa i polpastrelli di entrambe le mani come quando che allo specchio,e diceva Interessante.
Leggeva il quotidiano e diceva Mh.
Mh, e basta.

Eh, dottor sia inteso, mi e me marì non semo boni de far na “O” neanca col cul del goto, dunque se l’è un genio, sarebbe meglio la cosa restasse tra noi, mio marito certe cose non le deve sapere, io col postino non ci volevo andare, è stato un momento di debolezza.

Questa cosa non interessava neppure a me, figurarsi se poteva interessare al dottore, o al Costanzo.
Immagino possa interessare poco anche a voi com’è che è andata avanti la storia, di chi sono figlia eccetera eccetera, però per spiegarvi dove voglio andare a parare vi dico qual è l’inghippo che ci ho, da che ero ragazzetta.

Tolto il fatto che non sono un genio, anche se è tutto da dimostrare perché dei dottori pagati a ticket non bisogna fidarsi mai troppo, il difetto è questo. Pare che ci ho talmente tante cose da dire quando è che mi metto per parlare, che le parole anziché uscire con un senso logico, se ne vengono fuori un po’ alla vaffanculo.
Il risultato appunto, è che non ci si capisce nulla. Se però le scrivo, è diverso. Faccio qualche errore di sintassi è vero, ma da che quando ho scoperto mi piace di scrivere i racconti, passano inosservati. Dicono faccio “scelte di stile” per carità meglio così, tutta una vita a sentirmi dire che non sono furba, mica la posso fare.

Allora io che i temi a scuola ero bravissima, un giorno che però avevo cominciato a lavorare, ho deciso di fare un corso di scrittura creativa. Fa te che la mia collega mi ha chiesto Esci ‘sta
sera? No ci ho da andare al corso di scrittura creativa. Wow, allora un giorno devi farmi una bella scritta che me l’attacco in casa, a me i murales mi sono sempre piaciuti.

A parte che quando una ti dice così, è lì che metto in dubbio la diagnosi del dottore e mi sento un genio da matti, che è imbambita mica glielo dico a voce alla mia collega perché lo so che è un attimo quando è che voglio dire una cosa e me ne viene fuori un’altra.
Allora se volete che vi dico una cosa, ora ve la dico.
Siccome sarò pure scema ma mica stupida, per evitare fraintendimenti, nella maggior parte dei casi e in situazioni simili come questa, torno a casa e ci scrivo un racconto.
Lo scrivo da seria così mi sfogo, poi lo faccio leggere a qualcuno.
Finisce sempre così: quel qualcuno scoppia a ridere.
Ci è da mettere in dubbio se pure per iscritto magari non è che mi spiego troppo, ma meglio così, piuttosto che fare da piangere.

Le parole ci hanno la loro importanza, ma per quanto provi a spiegarle,  ‘gnuno ci capisce quello che gli fa più comodo.
La cosa importante è quando e come le scegli d’usare, che se le usi è perché ci hai qualcosa da dire altrimenti se ci ha una coscienza taci, no?
E’ l’impatto, che conta.
E sapete qual è la linea sottile che divide tutto ciò dalla pazzia?
Che voi siete stati qui con me ora e per tutto questo tempo, aspettando succeda qualcosa, nel mentre che vi sto raccontando del niente.

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