martedì 31 luglio 2012

RACCONTO infeltrito numero 5. "IL VECIO CATA SU"


Esiste da sempre un gran mistero dietro agli anziani che rovistano dentro e fuori dai cassonetti dei rifiuti.
Io mi sa che è colpa dello shock della guerra o una cosa simile, per la paura che torni o lo spavento di averla già passata, la guerra.
E allora secondo me, un po’ si buttano avanti o tornano indietro, fanno provviste o boh, questo non l’ho ancora capito bene, a dire il vero.
Ma ho una faccia tosta talmente tanta, che probabilmente un giorno fermerò uno di questi simpatici vecchini e chiederò delucidazioni in merito.
Non posso morire senza saperlo.
Per ora mi limito ad osservarli, farmi trovare impreparata sulle cose, mi da sempre una punta di fastidio.

Gli anziani – operatori - ecologici - smistatori - volontari, hanno un’immagine ben precisa.
Credo si possano dividere in due categorie.
Quelli che si aggirano professionali su l’Ape cross, e quelli più fantasiosi che se ne vanno a zonzo di bidone in bidone, su mezzi di fortuna da loro creati.
Io, è proprio su quest’ultima categoria che mi vorrei soffermare perché proprio mi esalta parecchio.
Di base, non si scappa, c’è una bicicletta, quasi sempre rigorosamente nera o bianca, di tipo olandese, da donna., meglio se arrugginita. Spesso i freni e la catena non vengono oleati per cui, se ad esempio stai camminando per strada, puoi avvertire il loro inconfondibile arrivo da dietro, senza bisogno di voltarti.
Percepisci il cigolio dei freni e della catena, ti sale subito la pelle d’oca, e dentro di te pensi: è arrivato il “Vecio Cata Su”
(“Vecio Cata Su” tradotto  dal  dialetto veronese, dovrebbe suonare una cosa tipo “uomo anziano che rovista nei bidoni, prende la prima cosa che gli capita tra le mani e la carica sulla bicicletta”)
Dicevamo che la bicicletta, è la base, e tu puoi riconoscere che si tratta di quel mezzo specifico per la presenza dei pedali perché a primo impatto, quel due ruote, sembra essere tutto fuorché una bicicletta.
Hanno il dono d’essere grandi maestri trasformisti, i Veci Cata Su.
Sono in grado di tramutare una semplice bicicletta in qualcosa di molto simile a un carro merci. E’ imbarazzante, la quantità di cestini che sono in grado d’appendere al mezzo. I comuni mortali, ne appendono uno davanti e al massimo uno dietro, qualcosa di poco ingombrante e non vistoso.
 Ma loro, i Veci Cata Su laddove vedono un piccolo spazio che possa garantire la presa, vi ci appendono ceste di vimini maestose, davanti, dietro, di lato, roba da fare invidia ai nipponici.

Da menzionare i più ingegnosi e pratici.
Tipo quelli che agganciano il carrettino di legno al portapacchi.
Con questo stratagemma per altro, risolvono uno dei più grandi problemi: dove sistemare il cane (quasi sempre un bastardino dal pelo corto ispido e marrone, occhio vitreo.)
C’è chi lo lega col collare al manubrio, costringendolo a fare grandi e sfiancanti maratone, tal volta, il cordone del collare finisce con l’aggrovigliarsi nei raggi della ruota, portando dunque all’inevitabile e rovinosa caduta verso l’asfalto del Vecio Cata Su, con conseguente frattura del femore.
Con il carretto invece, il pronto soccorso diventa l’ultimo dei pensieri.

Il Vecio Cata Su, ha la sua divisa.
Non una divisa ufficiale, la definirei più una tendenza, una moda, ecco.
Collezione Primavera- estate:

Canotta della salute bianca, un po’ ingiallita sotto l’ascella, spalline sgualcite dal tempo, patacca di terra misto acqua sulla pancia (medaglia guadagnata nell’orto, provveduto ad annaffiare alle 4 della mattina stessa ) rigorosamente infilata dentro a un pantalone a vita alta.
Un pantalone di cotone del tutto simile a quello della divisa della nazionale di calcio anni ’70, e Dio ce la mandi buona che non indossi un boxer spacciandolo per una braga a tutti gli effetti.
Bonus: ciabatta. Rigorosamente accompagnata da calzino nero o blu filo di scozia che la moglie ogni settimana, compra  al mercato rionale in offerta 3x2.
Ed è vero, quel calzino vivrà il tempo di due lavatrici, ma è altrettanto vero che un Vecio Cata Su, non butta via niente, ha il riciclo nel sangue. Lo userà anche quando l’elastico, smetterà di fare il suo dovere e l’alluce, sbucherà nudo e furtivo dalla punta della ciabatta stessa.
Spesso, il calzino vissuto, è motivo di litigio tra i coniugi.

Collezione autunno- inverno:
impermeabile alla lunghezza del ginocchio. Non è dato sapere cosa si celi al di sotto, molto probabilmente, un maglione infeltrito, di quelli che liberano scosse mica da scherzo dopo un semplice attrito (spesso in fantasia rombo e/o maglia intrecciata.)
Jeans basic a vita alta largo sulla coscia, marca DieVel  o Leui’s , tarocco imbarazzante indossato con disinvoltura e totale non curanza del plagio stesso.
Ai piedi, jolly: di nuovo la ciabatta col calzino di filo di scozia eccetera. Un evergreen.

E’ armato di un “rampin” ( che giuro non saprei come tradurre in italiano) immancabile arnese di fortuna, fabbricato dal Vecio Cata Su in persona.
Trattasi di un bastone di scopa di saggina, alla cui sommità viene fissata (spesso con dello scotch da pacchi) la parte in ferro a forma di “C” di una gruccia per abiti.
Il “rampin”, gli è utile per raggiungere i punti più remoti del bidone, senza dover ogni volta prendersela con  gli anni che stanno piegando sempre più la sua povera schiena.

Il Vecio Cata Su è una gazza ladra, è particolarmente attratto dalle cose che brillano, ma lo potete benissimo vedere caricare sul mezzo un piccolo mobile divorato dai tarli, un ombrello senza scheletro, un triciclo per bambini sprovvisto di manubrio o una bambola col viso sfigurato da pennarelli, completamente calva.
Nel mentre, è giusto dargli merito, impreca contro chi non fa la raccolta differenziata quindi provvede a mettere carta e vetro nei bidoni apppositi.
Potrebbe venire inoltre colto da un improvviso languorino, in tal caso, consiglio di non fissarlo, sarebbe capace di dimostrarsi infastidito e contrariato nei vostri confronti.

Quando decide che la giornata è arrivata a giusto termine, che il bottino racimolato è degno del suo duro e selettivo lavoro, prende la rincorsa e salta di lato sulla bicicletta, pedalando fino a casa.

Nella maggior parte dei casi, usa il garage come deposito, sgombro di automobile, dal momento che la patente gli è stata confiscata dall’ ente Statale di dovere.
Dunque giunto in “magazzino”, scarica il tutto alla rinfusa senza un ordine ben preciso.

Non tiene un inventario.
La moglie ne approfitta.

Una volta alla settimana, la vecchina, chiama i boy scout  del quartiere e chiede di sbarazzare il garage da un po’ di cianfrusaglie.
Chiede la cosa venga fatta in sordina, un poco alla volta.

Di solito lo fa il Giovedì, quando il marito è impegnato nel torneo di briscola della parrocchia.

E lui, il Vecchio Cata Su ignaro del complotto, ogni giorno torna in strada a raccattare il tutto.

La moglie si sente furbissima.

Con questo metodo, garantisce al marito un hobby e nel mentre, può guardare “Forum” 24 ore no stop sul digitale terrestre senza che il marito si ostini a dirle che quello, non è un vero tribunale.

That’s Amore.

domenica 29 luglio 2012

RACCONTO infeltrito numero 4. "Leggende metropolitane"


Ho sempre avuto un debole per le leggende metropolitane.
Io, appena ne sento una, prendo il mio quadernino e la segno, ne tengo uno apposta solo per loro.
Insomma, io proprio le colleziono, le leggende metropolitane.
Allora io adesso sfoglio a caso questo quadernino  e ve ne scrivo qualcuna, così ci facciamo due risate tutti insieme, occhei?

Intanto, direi di sorvolare su quella del doppio Beatle e della sospetta morte + rimpiazzamento  di un sosia del Paul. La conosciamo e non conosciamo tutti, e Dio solo sa se un giorno qualcuno ne verrà a capo, per cui nominiamola così, giusto perché merita di essere ricordata anche dalla sottoscritta, che non vuole essere meno a nessuno.

Di bella, c’è anche quella del vincitore della lotteria suicida. Che non solo l’ha interpretata il buon Ugo Fantozzi nel film “Ho vinto la lotteria di capodanno” ma viaggia, bocca per bocca, in diverse versioni. La mia preferita è quella del tipo, che se ne sta in un pub a sorseggiare la quindicesima birra della giornata. E lui è al banco, no? Allora, mentre è li che tracanna dal boccale, guarda la tv che stanno facendo l’estrazione numerica miliardaria. E quasi tira un cocone ma mica per colpo del lupolo,  dico perché vede che il biglietto che ha tra le mani è proprio quello li, quello che gli cambierà la vita (sapete quante birre piccole alla spina si possono comprare con un miliardo? Ve lo dico io, 4 ooo ooo oo !) E va beh insomma, allora quello vicino a lui gli toglie il biglietto tra le mani, approfittando della sua momentanea catalessi, e comincia a farlo girare per il locale. Morale: il biglietto scompare, quindi il fortunato “vincitore” capisce che da quel momento la sua vita è diventata inutile, esce dal pub e va a lanciarsi da un ponte. Alla fine, muore.

Andando un po’ più veloci, di belle, come leggende, dico, c’è quella degli alligatori che vivono nelle fogne di Nuova York,  l’origine del nome Bloody Mary, le catene di S. Antonio a scopo benefico che girano via sms o nei social network, il cd appeso sullo specchietto sopra il cruscotto ingannatore di autovelox, i ristoranti che chiudono dal detto al fatto perché pare distribuiscano gatti anziché conigli (e i cinesi in questo campo, sono i più quotati) e ancora, se vogliamo essere esoterici, l’apparizione di Satana recitando davanti a uno specchio per cinque volte di fila Ave Maria al contrario,  Sandra Milo e suo figlio Ciro.
E poi ancora, se desideriamo fare affari, dicono che, chiamando un operatore Vodafone lamentandosi del proprio piano tariffario, guadagni un cinquantino di ricarica gratis.

Già chiedo scusa se sarò volgare che non mi piace e lo sapete, ma cercherò con le righe che seguono, di esserlo il meno possibile.

Io me la ricordo bene, la prima legenda metropolitana in cui ho creduto per davvero.
Proprio pensavo fosse un fatto successo mica inventato, tanto famosa che mi sa è arrivata un po’ alle orecchie di tutti.
Ve la ricordate?
Diciottesimo festeggiamento in discoteca.
Un gruppetto di ragazze decidono di fare qualcosa di trasgressivo per entrare nel fantastico mondo dell’età adulta, quella che ti permette di guidare una macchina, votare, e lavorare in regola (beh, su quest’ultimo punto avrei di che ridire ma inutile fare facile polemica, no?)
Ho un idea dice un’ amica alla festeggiata.
Compi diciotto anni, giusto?
Allora tu, stasera, fai diciotto soffocotti a diciotto ragazzi diversi.
Allora, siccome quando metti insieme un gruppo di ragazzine di quell’età, sanno essere davvero sceme, la festeggiata dice va bene e lo fa.
Quando te la raccontavano e arrivavano a questo punto, te ci avevi sulla faccia un’espressione schifata mica da ridere ma il bello doveva ancora venire.
La festeggiata torna dunque a casa coi suoi trofei nello stomaco, si mette a letto ma non le riesce di dormire per il mal di pancia, si trasforma in Regan (No il presidente Reagan che si scrive diverso ma si dice uguale) dico Regan, la bambina protagonista del film “ L’Esorcista”.
E non le riesce smettere di espellere liquidi.
Allora i genitori la portano al pronto soccorso, i medici gli fanno la lavanda gastrica e gli dicono cosa ci aveva la furbetta nelle budella, però i genitori non la sgridano e si vantano di non avere una figlia alcolizzata e drogata e fine della storia.
A me l’hanno raccontata così, poi come ogni leggenda ognuno avrà la sua versione ma il “succo”credo sia uguale per tutti (e non fraintendete ve ne prego questa mia ultima affermazione)

E qui mi fermo perché vi giuro, potremo andare avanti per ore e ore.

Allora ce l’ho anch’io la mia personale leggenda metropolitana che proprio l’ho vissuta sulla mia pelle,  e adesso la faccio girare.
Che poi sono due, è che quando mi hanno raccontato la prima, di conseguenza, mi è venuta in mente la seconda.
E io mi spiace, ma c’ho da usare il dialetto veronese per spiegarmi perché le leggende hanno origini popolari, ma non vi preoccupate che metto la traduzione come fa Corona nei suoi libri (no il vip, l’alpinista dico, che si scrivono e si dicono uguali ma per fortuna sono diversi)

Si parlava inutile vi spieghi dove che non importa, di soluzioni e rimedi per prevenire orticari problemi estivi, di quanto queste zanzare facciano impazzire e via dicendo e allora una mi ha detto:

(giuro che me l’ha detto per davvero)


- Seto sa te ghe da far? No citronele, Autan e bracialeti. La me vicina de casa l' è biologa. La ma dito, che se te-te spalmi la PRO RASO sul corpo, no le te beca nean a morir. Però, no la schiuma, te ghe da tor la crema, te digo che ela l'è biologa, fidate. E no la PALMOLIVE, quela no la va ben da un casso. Te ghe da tor la PRO RASO, quela al mentolo e geranio. Po' te sentissi che profumo e basta. Ma me racomando, la crema, no el dopo barba. Voi dir, se no la le sa ela che l'è biologa...

( TRADUZIONE.
- Sai cosa devi fare? Non devi usare tutte le forme di citronella che ci sono ora sul mercato, l’Autan costa un sacco e dura poco, e i braccialetti, sono una fregatura pazzesca, esistono per vendersi.
La signora che vive nella porta accanto alla mia, si è laureata in Biologia con ottimi risultati.
Lei, scientificamente consiglia di spalmarsi una modesta quantità di PRO RASO su tutto il corpo. È reperibile facilmente in qualsiasi supermercato e la pubblicizzano anche in tivù.
Se la applichi sulla pelle, le zanzare, non ti si avvicinano neanche se da giorni non assimilano una goccia di sangue.
Però, bada bene, non devi prendere la formula in schiuma bensì quella in crema, c’è da fidarsi di questo consiglio, lei è biologa, lo fa pure di mestiere.
Ma mi raccomando, non fare confusione, devi prendere, ripeto la PRO RASO e non la PALMOLIVE perché quella non funziona. E leggi bene l’etichetta, dev’essere alla fragranza di mentolo e geranio. Se solo potessi immaginare quale piacevole profumo emana questo prodotto, correresti subito a comprarla.
Ma ribadisco, la crema, non la schiuma, è fondamentale non sbagliare.
Devi fidarti di me, ha studiato, la mia vicina di casa, è biologa.)



Vi dirò in quel mentre, ho pensato: forse è meglio che taccio, ma in confidenza, a voi lo racconto.
La mia nonna ad esempio, aveva tutta una sua teoria sul come superare la paura dopo uno stupido spavento.

E qui lancio al popolo la mia personale leggenda metropolitana, appunto.


Dobbiamo partire da qualche annetto fa però.
Allora, se voi avete la pazienza, io la racconto, se no facciamo così (che per me che sono pigra vi posso capire) vi metto le parole chiave in maiuscolo così è come se faccio un riassunto, occhei?

Quando ero BAMBINA mia nonna ha detto "Ah che togo su la buteleta e la porto al mar, che la ga bisogno de ciapar aria"( Trad. figlia mia, porto tua figlia, nonché mia nipote in soggiorno estivo per qualche giorno. La sua pelle ingrigita necessita di sole e mare.)
 Allora siamo andate a ROSOLINA io e lei insieme. E' stato li che ho scoperto che ci aveva le gambe perché prima,  credevo fosse tutta un busto sotto i gonnelloni, invece col costume si vedeva che ce le aveva anche lei, le gambe. Ho anche imparato a giocare a carte. Facevamo dei tornei individuali di ruba mazzetto che duravano almeno 8 ore al giorno. Se ci ripenso, è stata proprio una vacanza da dimenticare. Mica per i tornei, vero? E' che un giorno, siamo scese in SPIAGGIA alle 4 del pomeriggio (prima era vietato, troppo caldo).

Io, va detto sono sempre stata una un po' agitata, nervosa ma soprattutto SBADATA.
Niente, arrivo di corsa per SEDERMI sulla SEDIA a SDRAIO, dimenticando d'avere le DITA.
E tac, LA SEDIA SI CHIUDE sotto il peso del mio CULO, la MIGNOLINA resta INTRAPPOLATA tra lo scheletro di legno, proprio ME LA SHIACCIO di BRUTTO.
Se ci ripenso, sento ancora male.
COMINCIO A PIANGERE e a dimenarmi come una tarantola, NON C'ERA VERSO DI CALMARMI.
Allora, la MIA NONNA, ci ha avuto una delle sue idee.
Ha detto "VIEN CON MI, MOETE!"
(trad. forza, seguimi!)

Mi ha LANCIATA SOTTO LA DOCCIA PUBBLICA della SPIAGGIA continuando a ripetermi
"PISSA, PISSATE DOSSO CHE TE PASSA LA PAURA".
(trad. urina, fai la pipì in piedi nella doccia, con questo metodo, ti passerà la paura)

Mi guardavano tutti.
Io da quella volta a Rosolina giuro che non ci ho messo più piede, sulle sedie a sdraio non mi siedo più, e quando mia nonna mi dice "viento al mar con mi?" (trad. Vieni al mare con me?)
le dico che ci ho da fare.


Detto questo, questa è la mia leggenda metropolitana.
Tuttavia, non voglio responsabilità
.
La gente è curiosa, sperimenta, non puoi fermarla.

Però a onor del vero c'è da riconoscerlo: la mia nonna era un'impavida.
E aveva solo la terza elementare.




RACCONTO infeltrito numero 3. "E' ARRIVATO L'ARROTINO"







Per un attimo, un breve ma dolcissimo istante, mi sono illusa di vivere un momento di felicità intensa.
Stavo facendo le mie cose in casa, no?
A un certo punto, ho riconosciuto quella voce provenire dalla strada, quell'inconfondibile voce, unica, inimitabile come al pari può essere quella di Amendola che doppia Stallone.

La voce diceva:
"Signori e signore, è arrivato il moleta!
Ombrellaio,.arrotino, coltelli, forbici, ombrelli, tutti subito al minuto, riparazione immediata, qui, davanti a casa tua!"

Sono corsa come una disperata al balcone, avevo proprio voglia di vedere il vecchino col cappello che pedalava sul suo laboratorio mobile, sentire il rumore della lama che girava e creava schegge di luce impazzite pronte a dissolversi nell'aria prima di arrivare a toccare il cemento.

E proprio in quel momento, la mia felicità, è precipitata in un rovinoso e ingiusto baratro.
Una Mercedes grigia famigliare, tirata a lucido, diffondeva con un autoparlante il mitico slogan che ha accompagnato la mia infanzia.

E io, che sono una che la vuole vedere positiva, mi auguro non si trattasse del moleta moderno ma di un buontempone con un forte senso dell'umorismo che volesse augurare, un po' a modo suo, la buona Domenica a noi abitanti di Madonna di Campagna, ridente quartiere di periferia alle porte di Verona.


venerdì 27 luglio 2012

RECENSIONE SENZA CANDEGGIO numero 3. MARGERITA DOLCEVITA.

BennIgor




Le righe che seguono, sono frutto di  una piena crisi pre-mestruale.
La sottoscritta, declina dunque ogni responsabilità verso terzi e soprattutto verso se stessa.
Chiudiamo dunque il mese di Luglio con…




Scheda tecnica
Titolo: “Margherita Dolcevita”
Autore: Stefano Benni.
Edito: Feltrinelli
Numero pagine: 206
Mese: Luglio
Motivo che mi ha spinto alla lettura: consigliato dalla Fasoli e della C.Bussola.



RECENSIONE E OPINIONI DI DUBBIA UTILITA’.

Conoscevo una bambina fatta un po’ a modo suo, come del resto tutti i bambini lo sono.
Questa bambina (che forse più che una bambina, era un’adulta molto piccola) ogni mattina si svegliava, e dopo essersi messa ben in testa, spiando dietro ogni mobile dell’appartamento che non ci fosse nascosto nessuno, apriva lo sportello della credenza in cucina.
Tra il mucchio di cianfrusaglie, estraeva un vecchio pentolino stile anni ’70 cimelio di una dote di nozze. Un pentolino laccato rosso col bordino nero facile allo scrostamento, che riempiva di latte e metteva a scaldare sul fornello.
Il metodo di valutazione per capire se la colazione avesse raggiunto il grado desiderato, era quello di un po’ tutti: intingere l’indice al suo interno.
E ogni volta conseguentemente a questo test epidermico, sbatteva i piedi a terra infastidita, perché ogni giorno incollato a quel dito, si ritrovava la tanto odiata pannina.
Eppure, era una bambina attenta a tutto, chiaro, se escludiamo il discorso della pannina,
Quindi, prendeva dalla dispensa due Kinder Briosh, ne stringeva una per mano, e sentendosi l’ultima delle cow-girl rimaste in circolazione, le faceva esplodere stringendole tra il palmo e le dita, scoppiando quotidianamente in una fragorosa risata.
Ultimata la colazione, si dirigeva in bagno, prendeva una modesta quantità di carta igienica e con dei pennarelli, la imbrattava di motivi floreali.
Odiava i fiori, ma a scuola tutte le sue compagne avevano in tasca un fazzoletto a fiori.
Ultimato il tutto, raggiungeva sua madre che aveva la fissa del sonno anche quando era sveglia, le dava un bacio sulla guancia e s’incamminava verso scuola.

Aveva avuto nell’ordine: una giraffa, un elefante, un dinosauro viola.
Ma anche animali di piccola taglia, per la precisione prima una formica, poi una processionaria.
E come tutti, un cane tipo Lessie e un gatto bianco, tipo gatto bianco.
Più un’amica con il vizio di correre anziché camminare. Si chiamava Stellina.
Un elenco imbarazzante, siamo tutti d’accordo.
Se però consideriamo che, tutti questi personaggi vivevano solo nel suo immaginario allora forse, tutto torna.
Questa bambina, da grande voleva diventare

UNA BALLERINA DI TIP- TAP carriera troncata sul nascere dopo l’idea malsana che le era balenata per la testa: costruirsi un paio di scarpe da tip- tap. Ora senza vi racconti tutta la storia, provate a legare con dello scotch due monete sotto le vostre scarpe. Una sul tallone l’altra sulla punta. Avete fatto ? Ecco. Adesso, azzardate qualche passo di charleston e poi fatemi raccontare dal vostro osso sacro com’è andata a finire.

Chiuso con la danza, ha puntato verso altri orizzonti, ne era pienamente convinta, sarebbe diventata

SPIDERMAN. Dal momento che, nessuno si decideva comprargli un costume da uomo ragno, aveva deciso di costruirselo da se: retine d’arancia, facilissimo. Vanno bene sia come vestito che come munizioni- ragnatele. Ha dovuto fare un paio di giri al pronto soccorso prima di rendersi finalmente conto che arrampicarsi sui muri le era contro natura, ma una volta fattasene una ragione, ha puntato ad altre aspirazioni.

Conscia di quello a cui stava andando incontro, ha optato per

LA MILITARA. Decisa nel suo progetto bellico, un giorno, armata di forbici si è fatta tagliare i capelli. Corti. Molto corti. Quando troppi amici hanno cominciato a prenderla per il culo, ha cercato di mettere in giro la voce d’avere i pidocchi ma ormai era troppo tardi, già tutti sapevano che voleva andare in Jugoslavia a salvare i bambini in guerra.
Che poi, era vera la storia al contrario.
Aveva i pidocchi, ma per la paura che gli altri la credessero una lebbrosa, aveva raccontato la storia della sua missione di pace.
E i bambini avevano trovato più interessante la versione inventata, anche se la maggior parte, credeva che la Jugoslavia fosse più o meno vicino alla Cina e la guerra, un torneo di Risiko.
Mica roba da tutti avere un babbo che non ti parla come fossi un criceto, e ti racconta cosa succede nel mondo.

Allora si è un po’ stancata di pensare a cosa fare da grande, gli amici immaginari li ha messi da parte perché cominciava ad annoiarsi a intrattenere contorti monologhi, e degli amici quelli in carne e ossa… beh a mio avviso ne abbiamo già parlato più o meno abbastanza.
Quindi, ha cominciato a scrivere storie e…

Un attimo! Ci arrivo - ci arrivo, un attimo.




MARGHERITA DOLCEVITA questa bambina (l’adulta molto piccola) me l’ha ricordata un sacco, sin dalle prime righe:

“Rivendico il diritto di ognuno a chiamare le cose non soltanto col nome del vocabolario, ma anche con quelle del vocabolaltro, cioè un nome inventato e scelto. In fondo tutti lo fanno (…) mio nonno, che è un po’ arteriosclerotico, mi chiama Mariella, Marisella oppure Venusta, che era sua sorella.”

Un tipino tosto e con le idee chiare, nulla da dire.

In realtà, la cosa che proprio mi spezza di Margherita, che poi è pure la protagonista del libro è che lei, per tutta la storia sapete cosa fa?
Scrive poesie brutte e inizi, ma solo inizi di libri.
E poi li mescola narrando tutto ciò che le accade realmente intorno.
Voglio dire, Benni ci racconta tutto quel che c’ha da succedere mettendosi nei panni di Margherita.
A essere proprio sincera, la trama in sé non è che mi abbia particolarmente elettrizzato, per cui mi sa che nemmeno ve la racconto. Però mi raccomando, leggetelo perché va fatto.

Lo stile di Benni è calzante, ironico, frizzante divertente. A me piace, mica che è il suo primo libro che leggo.
Se devo fare qualche appunto negativo allora dico che secondo me, scrivere romanzi visti con gli occhi di un bambino è difficilissimo, e Margherita spesso inciampa in riflessioni che a mio avviso,  non possono appartenere a un mondo nano.
E poi, io c’ho la fissa dei dialoghi, no?
Ecco, dal mio punto di vista qui non sono il massimo della vita.
Troppo serrati, e chiusi con la formula classica “-ho detto –ha detto –ho spiegato –ha risposto “ …e via andare.

Io su questa cosa delle poesie brutte e degli inizi di romanzi, ci ho proprio perso la testa.
Ed è qui che mi voglio soffermare.
Non so se qualcuno ci ha mai pensato prima ma sarebbe mica male lanciare nel modo dell’editoria una cosa simile.
Direte si, beh, gente che scrive robe brutte, ne trovi pieni gli scaffali  nelle librerie, hai voglia!
E invece no, se la pensate così, vuol dire che non mi state seguendo.
Qualunque scrittore io credo, si lancia sul mercato convinto d’aver scritto qualcosa di fico.
Siamo noi, che poi ci possiamo prendere beatamente la libertà di dire:
“Questo lo giro a mia zia, la settimana prossima compie pure gli anni!” oppure, “Lo dono alla biblioteca del quartiere così faccio pure un gesto nobile.” o “Domani è Martedì, tocca alla raccolta carta, dove avrò messo quel libro del…”

Capite cosa intendo?
Ci vorrebbe qualcuno che una mattina si alza e dice:
“E poi sai che c’è di nuovo? Oggi scrivo un intero libro con solo inizi, tutti inizi che non c’entrano niente uno con l’altro, ma a patto che siano brutti, terribilmente brutti.”

E per brutti, non voglio intendere volgari, troppo facile.
Deve esserci una ricerca anche nel brutto.
Parole cacofoniche, freddure, assurdità, banalità in rima e ricerca delle parole più semplici che per dimostrarci intelligenti o consci di una certa padronanza lessicale, spesso tendiamo ad escludere o accantonare.

E questo è il mio progetto per chi volesse seguirlo, ammesso non esista già.

Allora io adesso vi saluto tutti con un racconto.
Un racconto sempre del Benni che mica è preso da “MARGHERITA DOLCE VITA” ma da un altro suo libro che si chiama così: “IL BAR SOTTO IL MARE”.
Prova del fatto che, volente o dolente, chi scrive non può fare a meno di scappare dal suo.


 “C'era un uomo che non riusciva mai a terminare le cose che iniziava. Capì che non poteva andare avanti così. Perciò una mattina si alzò e disse: "Ho preso una decisione: d'ora in poi tutto quello che inizie..."


RECENSIONE senza candeggio numero 2. L'Amore del Bandito

Il Mamo



Scheda tecnica
Titolo: “L’Amore del Bandito”
Autore: Massimo Carlotto
Edito: edizioni e/o
Numero pagine: 189
Mese: Luglio
Motivo che mi ha spinto alla lettura: una compagna di corso, dice che secondo lei io e lui scriviamo uguale.

RECENSIONE E OPINIONI DI DUBBIA UTILITA’.

L’inverno scorso, mi sono iscritta a due corsi di scrittura creativa, alcuni potrebbero dire perché uno non ti bastava? E io dico, può essere che se ci avevo qualcuno con cui fare all’amore notte e dì, o ad esempio un lavoro, probabilmente non m’iscrivevo nemmeno a uno. Succede così: quando ci hai tanto tempo a disposizione e non vuoi che il cervello ti vada in pappa, qualcosa devi fare. Poi sono una che esagera da matti, ma va beh, questo è un altro discorso.

Allora, io mi sono promessa di fare un esercizio, che mica me l’ha detto nessuno, è che a volte mi vengono delle idee, diciamo.
Mi sono detta Silvia, fai così: in un corso, provi a tirare fuori la parte ironica, proprio spari minchiaggini a raffica, nell’altro, ci hai da essere nera che più nera non si può, proprio cattiva ci hai da essere. Roba tipo che finiva impiccavo pagliacci, sgozzavo bambini e li davo in pasto alle galline, poi bruciavo sulla sedia dei gemelli, e infine, facevo ammazzare di botte la gente, ci siamo? Cose di cui il mondo ha bisogno, che tirano su di morale, per intenderci. Io comunque per la cronaca non credo d’essere tanto riuscita nell’esperimento. Nel senso che quando provavo a sparare le minchiaggini non rideva nessuno. Il brutto della faccenda, però, è che non sono nemmeno stata capace di creare tensione. Credo il prossimo inverno, se non avrò ancora trovato l’amore, m’iscriverò a un corso di ballo. Pensavo al rock & roll acrobatico, la mia amica Elisa dice che mi verrebbe bene.

Quindi, senza che stiamo qui a parlare del niente ancora per tanto, arriviamo al punto.

Questa compagna di corso, da che sono finite le lezioni, quando mi vede in giro nemmeno mi saluta. Non credo perché sia maleducata, il fatto è che io, sono “alta” 155 cm e ci sono abituata, a volte la gente non mi vede.

Ma non è questo il punto, il punto è che lei, il gigante, una sera quando mi vedeva anche se ero ancora alta un metro e mezzo mi ha detto: te devi leggere qualche libro di Carlotto perché secondo me vi somigliate. A me lui piace parecchio.
E io allora l’ho letto.
Carlotto di libri ne ha scritti tanti, ma siccome io ci avevo la coscienza sporca e sapevo che al corso stavo barando (voglio dire che io il mondo, mica lo vedo nero) ho scelto quello che costava meno. E io lo so che non si fa così a scegliere i libri ma quando ti mantiene l’Inps, c’hai da farti due conti nelle tasche, a maggior ragione se sai già in partenza che acquisterai delle pagine che non saranno proprio nelle tue corde.

Ma visto che parliamo di libri e non degli affari miei, vediamo di andare oltre.

Siccome io credo che il vero motivo per cui questa ragazza non mi saluta più, è perché mi ha un po’ idealizzata e a lungo andare l’ho un po’ delusa, ho preso appunti per come si fa a scrivere come le piace. Perché giusto a sapersi, io sono per la pace nel mondo e non voglio che la gente mi tenga il muso. Sono sensibile, all’occorrenza.

Si parta dunque con la sotto - rubrica “Carlotto’s style”, via alla sigla, grazie!
(seguono le note del pianoforte di Silvestri, quelle che accompagnano la piuma di Forest Gump)

Intanto non è che puoi scegliere dei personaggi o delle situazioni a caso, ci hai da fare delle scelte precise, tipo mettere dentro la storia (copio eh, perché voglio imparare): un ciccione, un infame, la talpa, qualche vecchia battona, la giovane puttana che si fa il protagonista, lo storpio, degli sbirri e qualche nome che fa fico tipo “Pizzetto Bianco” o “Rudy Scanferla”, anche “Max la Memoria” a dire il vero, mi piaceva parecchio. Per i nomi comuni, Attilio va benissimo. Non bisogna inoltre dimenticare (e scusate il gioco di parole) qualche ricordo galeotto, un dhrrrink  con la scorza d’arancia, del bluuuuuessss e del giiaaaaaaszzz.

Fatto questo, puoi ritenerti già a metà dell’opera.

Poi, bisogna crearsi delle coperture. Il barbiere ad esempio, può vendere sotto banco pistole senza licenza, il pizzaiolo confondere la farina con altro (volevo dire il contrario), o semplicemente, basta far creder d’avere un pub ma dedicarsi a ben altro, fare i mafiosi sarebbe l’ideale.

Fondamentale è il linguaggio.
Leggendo, mi sono trascritta tutto, perché sono una che le ci piace la precisione.
E io ripeto che trascrivo perché ho fatto voto di non essere più volgare e scurrile.
Intanto c’è da parlare in finta terza persona, come i matti., occhei?
E poi, le frasi chiave che bisogna ripetere dall’inizio alla fine devono essere:

- “Smammate, sbirri!”
- “Stavo bevendo il mio drink”
- “Vai a fare in culo, pezzo di merda”
- “Ti tengo per le palle”
- “Vai a farti fottere”
- “Mandare tutto a puttane”
- “Stronzetto, hai finito con le cazzate?”

Detto questo, se qualcuno di voi, oltre alla sottoscritta, volesse cimentarsi nel genere per me ci ha un po’ tutti gli strumenti.

Questo per quel che concerne la sostanza, ah, a proposito di sostanza, se ci mettete pure la droga come perno, meglio è.

Veniamo alla forma.

1) Esagerate coi punti di sospensione, proprio abbondate. Fregatevene se la vostra insegnante di lettere al liceo diceva che non si fa, siate anarchici, un po’ come faccio io con le virgole. Evviva il mondo dove ognuno fa quel che gli gira per la zucca,  “fanculo! “come direbbe uno dei personaggi di Carlotto. (Vedete che già sono entrata nello spirito.)

2) Andate di fretta. Usate sei righe per descrivere un personaggio e mezza, per dire che ha appena compiuto un rapimento. E poi ancora altre cinque righe per descrivere una sventola esagerata, ma solo una per spiegare che ha fatto sesso sfrenato col protagonista. Siate dunque fisionomisti, non cercate di calarvi nelle atmosfere, fate piuttosto sapere che numero di scarpe porta tizio e il nome del cosmetico preferito di lei, ma per l’amor del cielo, NON CREATE ATMOSFERE.

3) Siate piatti. Incredibilmente piatti. Non è che deve succedere per forza qualcosa a ogni capitolo, i colpi di scena lasciateli alla De Filippi, fate in modo che il lettore, possa poggiare il libro sul comodino per una settimana e non ritrovarsi smarrito una volta che decide di riprenderlo in mano.

4) Siate sovversivi. Questo è l’ imperativo. Eliminate i cliché dalla vostra penna. Un “ruvido” ad esempio, che piange ogni due per quattro come un bambino preso dalle coliche, fa sempre la sua degna figura.

5) Forma verbale consigliata: passato remoto. I fatti: devono essere scrupolosamente datati, meglio se non in ordine cronologico. Nella prima pagina, fate sapere che “personaggi e situazioni sono frutto di fantasia”, che fa un po’ paravento e mette mistero. Ma soprattutto (e lo segno al punto 6 perché merita restare solo)

6) Scrivete la parola “Fine” nell’ultima pagina, che fa un po’ vintage e con il sapore dei tempi passati non si sbaglia mai.

E questo è quanto, credo.


Per concludere, volevo scusarmi con la mia ex compagna di corso se non sono come Carlotto e via dicendo però giuro, io da grande non voglio fare la scrittrice, e nemmeno diventare una causa pubblica.
Vorrei inoltre approfittare di questo spazio per invitarla al mio saggio di rock & roll acrobatico dell’anno prossimo così, quando mi lanceranno per aria, magari mi vedrà e finalmente, potremo tornare a salutarci e a parlare di libri assieme.

Ciao, T.V.U.C.D.B.

( Post Scriptum: Personaggi e situazioni sono frutto di fantasia.)


RACCONTO Infeltrito numero 2. "Mamma, mamma sono arrivati gli Indiani!"


                                            
A un certo punto, ho perso la strada. Sono distratta, mi succede spesso.
Non ho la minima idea di dove sono finita, decido dunque che l’unica cosa da fare è parcheggiare la macchina, fare due passi a piedi.
Sono da sola ma la cosa non mi terrorizza. Dopotutto ho viaggiato diverse volte da sola e la solitudine, più che temerla, la amo. Il che non so se è veramente un bene ma in occasioni come questa, mi è utile per non entrare nel panico.
Si rivela la mia fortuna, dopo pochi passi, si apre davanti ai miei occhi un parco.
Decine di indiani (e per indiani, non intendo quelli che se ne vanno a zonzo con piume e frecce, indiani dell’India, dico, na’ cosa tremendamente contemporanea, ambientate dunque questa scena ai giorni nostri, lasciate cavalli, pistole e tende alla storia)…  decine di indiani,  chi distesi sulle panchine, chi seduti a terra co’ le gambe incrociate, gli occhi chiusi e il sorriso stampato sulle labbra. Mi sono spesso chiesta che cazzo avranno mai gli indiani da ridere sempre. Fateci caso a questi esseri scuri e minuscoli. Sorridono per tutto “anche per le disgrazie” come diceva mia nonna.  
Sciopero del silenzio, dice uno striscione sistemato al centro di questo cerchio.
Decido che questa sì, questa è un’immagine meravigliosa da immortalare.
Tiro fuori la mia reflex, senza pensare troppo alla parte tecnica che richiede il mio adorato arnese. Non imposto i tempi, me ne fotto della priorità di diaframma, dell’esposizione, dei cazzi e degli ammazzi vari, giro la ghiera sull’impostazione automatica e decido essere io a immortalare la scena e la macchinetta fotografica a provvedere ai noiosi metodi.
Centinaia di palloncini colorati volano leggeri nell’area, accentuando il silenzio, e il peso di entrambe le cose.
Mi sento in pace con loro e la loro stessa pace.
Che poi, per una cinica come me, è tutto un dire.
Controllo il risultato dei primi scatti. Sono soddisfatta, l’effetto è proprio quello sperato. Finisce che ignoro pure il risultato, non controllo più il monitor, lo farò a casa direttamente da quello del  pc- penso- e continuo a scattare.
Un bambino comincia a urlare. Sua madre è seduta su una panchina poco distante, chiacchiera con delle amiche. Ha la messa in piega perfetta, è truccata pesantemente, vestita come la moda chiede, parla di frivolezze perché il suo status glielo impone. Ignora totalmente il figlio che prende a sbattere i piedi e a dar  spettacolo coi migliori dei suoi capricci.
M’incazzo come una iena.
La mia ombra si proietta sulla sua tinta, sul suo rimmel scuro, fino a coprire il suo tacco 16, il vestitino a fiori finto vintage anni ’70 che fa molto freedom, ed esalta forme non più da ventenne.
Le parlo con voce quasi impercettibile, come quando da piccola dovevo mormorare segreti all’orecchio di un’amica.
Le faccio una domanda, concisa come è nella mia natura.
Le chiedo scusi, ma tutto questo non le pare profondamente irrispettoso?
E lei sale su tutte le furie, sbraita come una dannata.
Mi è impossibile descrivere l’espressione del suo viso perché un forte raggio di sole punta i miei occhi, scalda le mie guance, che non so se tutto quel calore è dato dal mio tormento o dalla palla di fuoco che splende nel cielo.
Una vertigine, e poi sublimo.
Il mio corpo scema lentamente dalla scena, dopo pochi istanti prendo coscienza del fatto che, sto solo sognando.
E nella realtà dei fatti c’è davvero troppa luce, sobbalzo sul letto con un tamburo in mezzo al petto che fermarlo è un casino, sudo.
Merda, mi sono addormentata, no –non- a- me –sono-appena- stata- assunta- che- cazzo- gli –racconto- ora- al- boss?
Impugno il telefono ancora grondando, le mani che tremano, guardo l’ora.
Le 4.30.
Ce la posso fare a timbrare il cartellino per le 5.20.
Certo.
Se fosse domani, ovvio. Domani mattina, non oggi pomeriggio.
Devo impostare l’orologio con il formato 24 ore, quello da 12 non fa per me, chiaro.

Stavo meglio dieci anni fa, prima di cominciare a entrare nel fantastico mondo del lavoro.
Ai tempi in cui mi drogavo pesantemente, intendo.
Almeno potevo non dare la colpa allo stress quando il mio cervello decideva d’abbandonarmi senza preavviso.


giovedì 26 luglio 2012

RECENSIONE senza candeggio numero 1. Il Conte di Montecristo

Il Duma



Scheda tecnica
Titolo: “Il Conte di Montecristo”
Autore: Alexandre Dumas
Edito: Bur Rizzoli
Numero pagine: 1192
Mese: Luglio
Motivo che mi ha spinto alla lettura: il mio babbo, me ne ha fatto una testa tanta.


RECENSIONE E OPINIONI DI DUBBIA UTILITà.
Guardiamoci nelle palle degli occhi e non raccontiamoci panzane, io sin da bambina sono stata la cosa più distante da un leader. Non ero nemmeno la classica sfigata, quella che ad esempio esce da scuola e si ritrova le ruote della bicicletta bucate, o apre lo zaino per fare merenda e scopre che gli hanno rubato il panino. Però, ho sempre avuto la tendenza a starmene un po’ per gli affari miei, per osservare le persone da distante perché un po’ lo confesso, la gente mi turba. E poi, non ci volevo avere un gran a che fare perché ci vedevo sempre un po’ di cattiveria dentro e spesso poi i fatti, mi davano ragione. Allora, il mio babbo mi diceva, com’è che stai sempre da sola? E io rispondevo che la gente non sta tanto bene, ma io stavo forse peggio e lui mi diceva, in dialetto Veronese perché lui è della collina, uno alla buona che non fa’ troppi discorsi in più : “non sta preoccuparte che prima o dopo tuti i cata quel del formaio”. E io, che ogni mattina andando a scuola, vedevo il camioncino che il formaggio proprio lo vendeva, mi chiedevo com’è che lo vedevo solo io.
Poi, un po’ cresciuta un giorno ho chiesto chi era mai questo del formaggio e lui sempre veloce mi ha parlato de Il Conte di Montecristo, che insomma, ha aspettato una vita, e una volta cresciuto con tutta la sua calma e usando la testa, si è vendicato di quei quattro amici stronzi che ci aveva intorno, perché “bisogna sempre saver contar fin a diese, no che a uno ghe gira le bale e el se mete a far su caniara per un casso, o el ciapa e el se mete in te un canton aspetando che i altri i cata la creansa che serve par star mondo.“ –un guru, direi.

Insomma, arrivata a Trentanni mi son detta, ma si, leggiamo sta’ storia del Conte visto che sono venticinque anni che mi gira per la zucca.

Dunque in breve, 1815, il marinaio Edmond Dantes  (un ragazzo che nella vita, a parte stare per mare, non ha fatto altro che farsi gli affari suoi) viene arrestato sotto false accuse proprio durante il giorno delle sue nozze.
Lo ingabbiano in un castello in mezzo al mare e li conosce uno che diventano amici da matti.
Questo coinquilino, lo fa ragionare, tanto stanno li 25 anni e tempo per far pensieri ce n’è per tutti, e facendo due conti, Edmond va a finire che capisce ci ha degli amici di merda che è per colpa loro che lui perde la gioventù in gattabuia, perché gli hanno tramato alle spalle ognuno per il proprio interesse.
Allora, quello che stava in prigione col protagonista, gli fa da maestro, gli insegna almeno 35 lingue straniere e i segreti della chimica, poi gli dice che ci ha un tesoro, e che tanto lui si sentiva che stava per morire e che il tesoro poteva anche andare a prenderselo.
Poi va beh, il bottino, era sull’isola di Montecristo, per quello che il libro si chiama così.
Quindi Dantes evade, preleva il soldo, va a Parigi e trova tutti i suoi nemici, nessuno lo riconosce perché è vecchio, e non è più un poro pitoco come una volta, e poi si traveste e gliela fa a tutti.

Per me, potenzialmente è una storia fighissima, se vogliamo.

E poi, ho imparato un sacco d’espressioni auliche, che proprio mi gasano parecchio tipo :
“forse m’inganno”, “ Orsù dunque”, “A meraviglia”, “Diamine”, “Sta bene!” , “Di grazia”, “Peste!”, ma soprattutto “Addio, a domani!”

Un giorno, qualora avessi del tempo, vorrei riprendere in mano l’intero volume e contare quante volte viene scritto “In fede mia”, così, per sfizio.

Mi sono chiesta però se erano proprio necessarie tutte le 1192 pagine. Voglio dire, la prima parte ci stava tutta, proprio non ti riesce di chiudere il libro finché Dantes non torna in libertà. Da li in poi, usando ancora un’espressione aulica, credo sia una vera e propria “spada nel culo.”
Tipo che ti ripete lo stesso aggettivo dopo una riga e ansima per venti, una vera e propria macchina per produrre rantoli e agonia, direi.
I suoi personaggi, o fremono o impallidiscono, partecipano a pranzi, balli e funerali (quest’ultimi ambientati sempre e rigorosamente in giornate grigie e immobili. Originale, direi.)
Allora mi sono informata. Dumas, era pagato per scrivere a riga.
Beh, allora tutto spiega, anch’io al suo posto avrei allungato il brodo.
A conti fatti, potevo accontentarmi anche della spiegazione che m’aveva dato il mio babbo, semplice, concisa e senza troppi guazzabugli.







RACCONTO infeltrito numero 1. "La Matrioska, Gesù e l'Attesa"


                                               
Non credo di dire nulla di nuovo scrivendo quel che sto per scrivere, ma concedetemi il lusso d’essere scontata in queste prime righe, così giusto per dare l’idea.
Or bene, tutti sappiamo che esistono posti imbarazzanti in cui non puoi sottrarti dal dover affrontare discorsi inutili, o meglio, potresti anche farlo ma per educazione e quieto vivere, decidi che anche poche sillabe è buona cosa concederle, giusto per non far capire a primo impatto a chi divide con te l’ossigeno in quel momento, quel che i tuoi amici sanno già da tempo.
Ossia, che sei una persona tremendamente cinica, scostante e scorretta.
Prendiamo un esempio per tutti.
L’ascensore.
Io personalmente lo prendo pochissimo, ma a volte non posso farne a meno per pigrizia. E la mia pigrizia, non sta nel semplice fatto di salire le scale.
Se ad esempio mi trovo a dover raggiungere un ufficio a me prima sconosciuto o a dover andare a trovare un amico per la prima volta nella sua nuova casa, mi vedo costretta a salire in quella scatola claustrofobica. Perché mi conosco, sono distratta, poi salendo le rampe a piedi finisce che perdo il conto dei piani e quindi, tocca scendere all’entrata e ricominciare la conta, il che va da se, è una bella rottura di coglioni.
Con l’ascensore difficile sbagliare, premi il tasto corrispondente e “tac”, sei subito sul posto, asciutto e senza stress.
Ad ogni modo non volevo parlare della mia pigrizia.
Dicevamo dei discorsi inutili.
Non ricordo dove, un giorno, ho letto che le possibilità d’entrare in un ascensore e avere la fortuna di compiere “il viaggio” da solo, sono pressoché inesistenti; tocca quindi spesso condividere il tragitto (seppur breve) con uno sconosciuto, o quasi. Sempre su questo articolo, v’era una tabella chiara e concisa sui temi che vengono affrontati in quel mentre. Difficile si arrivi a discutere sul senso della vita (per fortuna, sia ben inteso) o si cominci a sparare cazzate a raffica fingendo una sana competizione tra chi la dice più grossa, o che escano maliziose confidenze sul sesso e i tabù. I luoghi comuni, pare dunque da questa tabella, siano i più quotati. (Io poi, ho notato che sono pure gli stessi argomenti che la gente pubblica sulla home di facebook, ma questa è solo una mia attentissima analisi sociologica, per cui non credo faccia testo.)
Venendo al dunque, i discorsi in questione sono:

1) Il tempo.
2) La crisi.
3) I politici che hanno rotto il cazzo.
4) L’impellente bisogno di ferie.

Quando va proprio male, può essere nell’abitacolo qualcuno preferisca fischiettare piuttosto che parlare. Spesso decide di lanciarsi sulla ultima hit del momento, il tormentone che fan girare in radio per mesi. Tra l’altro, questo genere di persone sono il mio incubo peggiore, assieme alla canzone “Ai se tu pego”.
Io ho trovato il modo giusto per sopravvivere quando mi ritrovo in queste situazioni, che poi giuro, è un metodo infallibile da poter adottare in qualsiasi contesto. Stacco la spina del cervello, fisso la persona che ho di fronte, e a seconda dello sguardo che mi lancia, capisco quando arriva il momento d’interagire.Ci vuole un po’ d’allenamento ma garantisco che i risultati sono raggiungibili in pochissimo tempo.
Quindi, a seconda dell’occhiata, capisci se è il momento di rispondere con “Certo, sono d’accordo” oppure “Hai ragione, è una vergogna.”. Bastano solo queste due varianti, non occorre altro. Il trucco per capire quale delle due frasi è il momento di sfoderare, sta nel fissare l’arcata sopraciliare, il movimento delle mani e la vibrazione della narice del vostro interlocutore. Indispensabile sapere che, nel momento in cui l’altra persona chiude le labbra, significa che è arrivato il vostro turno.
Ognuno col tempo, affina la propria tecnica per scollegare il cervello. Non credo di potermi ritenere una professionista in questo, ma posso tranquillamente affermare d’aver maturato una buona esperienza. Il mio trucco, dovesse servire a qualcuno, è quello di distrarmi osservando il posto in cui sono e più precisamente, il punto che sta immediatamente dietro l’orecchio destro del mio interlocutore. Ho fatto le prove con un’amica, dice sembra io stia fissando gli occhi. Sappiate anche, che sarà impossibile farvi scivolare ogni singola parola, ma vi accorgerete che quelle che riuscirete a cogliere, vi potranno servire o farvi sorridere. Credo, sia uno scherzo dell’inconscio, quello d’assimilare parole o espressioni strambe, lessici che non sentivate da tempo, o per orgoglio personale non vi siete mai azzardati ad usare. A conti fatti dunque, in quest’imbarazzante situazione, eviterete discorsi inutili ma sarete costretti portarvi a casa,  vocaboli e verbi altrettanto infruttuosi, fatevene una ragione.

Ora, mi serve un attimo di tempo per capire perché ho voluto portarvi fin qui col mio ragionamento.
Ecco, ora ricordo.
Amo la birra. Proprio la bevo di gusto, non so spiegare.
Ma ho anche un difetto: la so tenere pochissimo. Non nel senso che mi sbronzo facilmente, ma che proprio come la butto giù, la devo fare fuori. Faccio un sacco di pipì, sono sempre al cesso. Conosco un sacco di gente proprio per questo motivo, e non perché io sia una persona loquace, piuttosto perché passo più tempo in coda che al bancone.
Proprio ieri sera, stavo aspettando il mio turno concentrata a pensare più al deserto che al Vajont. Un male di vescica atroce perché ecco, un altro mio difetto è quella di non saperla frenare. Volevo dire trattenere, ma grazie a Dio o a chi per esso, ancora non mi è capitato di farmela addosso. A volte, ci sono andata vicinissima, questo è vero, ma posso ancora vantare una certa eleganza anche con 10 litri di luppolo in corpo. Immaginatevi una tarantola, eccomi qua.
Ora, se io fossi in coda al cesso, e avessi voglia di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno per ingannare l’attesa, certo non sceglierei di parlare con una che cammina sul posto, digrigna i denti e sbuffa in continuazione. Eppure, il pirla si fa sempre sotto.
Proprio ieri sera però devo ammettere, me la sono cercata.
Stavo appunto tentando di non pensare allo straripamento della diga. In genere, fissare un punto ben preciso m’aiuta a mantenere il genere di concentrazione che mi serve. Guardavo dunque con insistenza, il tatuaggio sul polpaccio del ragazzo davanti a me.
Va aperta una piccola parentesi. Io non ho nulla contro i tatuaggi. Certo sono convinta che se tutti non se li facessero, nessuno se li farebbe ma insomma, io sto anche invecchiando per cui forse è per questo che faccio questo discorso. Non so per quali ragioni uno decida quale soggetto tatuarsi, chi ne sa però mi dice che spesso hanno un significato profondo e ben preciso.
E dunque osservavo il polpaccio di quello che mi stava di fronte.
Non ho potuto fare a meno di tamburellare il mio indice sulla sua spalla e chiedergli:

“Scusa se ti disturbo, ma perché hai una matrioska con la faccia di Gesù tatuata sul polpaccio?”
Mi ha guardata come se fossi più un fastidio che una persona.

E io, mi sono immediatamente pentita d’aver fatto quella domanda.
Ho usato il trucco dell’ascensore dopo credo 10 secondi che ha cominciato a parlarmi. Era pesante come il cetriolino del Big Mac.

- (….)
- Certo, sono d’accordo.
- Back ground. (…) Non ci sto dentro (…) Che storia. (…) Vuoi passare davanti?
- Grazie.
- (…)
- Certo, sono d’accordo.
- Sai, è la vita.
- Hai ragione, è una vergogna.


Arrivato il mio turno, ho chiuso la porta del wc immediatamente dietro le spalle, sentendomi in salvo ma contemporaneamente smarrita.
Avevo dimenticato il motivo per cui ero finita li dentro.
Un po’ come quando decido di fare le scale e perdo il conto del numero dei piani che ho percorso.
Mi è toccato uscire dal bar per ricordarmi cosa dovevo fare.
Dovrebbero mettere degli ascensori immediatamente fuori dalla porta dei cessi.
Preferibilmente a uso personale.



Presentazione.


Spesso, quando scrivo, ho come l’impressione di vivere all’interno di una lavatrice, ma di quelle moderne mica da ridere, ultra silenziose e compatte.
Mi piacerebbe riuscire a mescolare tutti i colori, prendere tutti gli odori, debellare le macchie che si impregnano in tutto ciò che indossiamo.
E quei vestiti io giuro, vorrei ripulirli, dargli un nuovo profumo per rimetterli in contatto col mondo esterno e vivere senza imbarazzo.

Devo ammettere purtroppo, di non essere una brava casalinga, di dimenticare spesso che ad esempio, il rosso e il bianco non vanno d’accordo, che 30 gradi sono più che sufficienti per un buon lavaggio.
Inoltre, ogni volta che vado a fare la spesa, dimentico di comprare la candeggina, ma ho imparato a farne senza.


Nascono dunque

RACCONTI INFELTRITI nome scelto per la mia incapacità di sapermi spingere oltre una pagina di word

e

RECENSIONI SENZA CANDEGGIO. Un blog, nel blog. Una rubrìca con un occhio puntato verso il mondo dei libri, una storia nella storia, una matrioska dove (poi vedrete) scatenerò tutta la mia invidia verso chi, un libro, è stato in grado di scriverlo.
Senza candeggio perché certe macchie a mio avviso, non devono essere rimosse: le medaglie, sono medaglie.