venerdì 27 luglio 2012

RACCONTO Infeltrito numero 2. "Mamma, mamma sono arrivati gli Indiani!"


                                            
A un certo punto, ho perso la strada. Sono distratta, mi succede spesso.
Non ho la minima idea di dove sono finita, decido dunque che l’unica cosa da fare è parcheggiare la macchina, fare due passi a piedi.
Sono da sola ma la cosa non mi terrorizza. Dopotutto ho viaggiato diverse volte da sola e la solitudine, più che temerla, la amo. Il che non so se è veramente un bene ma in occasioni come questa, mi è utile per non entrare nel panico.
Si rivela la mia fortuna, dopo pochi passi, si apre davanti ai miei occhi un parco.
Decine di indiani (e per indiani, non intendo quelli che se ne vanno a zonzo con piume e frecce, indiani dell’India, dico, na’ cosa tremendamente contemporanea, ambientate dunque questa scena ai giorni nostri, lasciate cavalli, pistole e tende alla storia)…  decine di indiani,  chi distesi sulle panchine, chi seduti a terra co’ le gambe incrociate, gli occhi chiusi e il sorriso stampato sulle labbra. Mi sono spesso chiesta che cazzo avranno mai gli indiani da ridere sempre. Fateci caso a questi esseri scuri e minuscoli. Sorridono per tutto “anche per le disgrazie” come diceva mia nonna.  
Sciopero del silenzio, dice uno striscione sistemato al centro di questo cerchio.
Decido che questa sì, questa è un’immagine meravigliosa da immortalare.
Tiro fuori la mia reflex, senza pensare troppo alla parte tecnica che richiede il mio adorato arnese. Non imposto i tempi, me ne fotto della priorità di diaframma, dell’esposizione, dei cazzi e degli ammazzi vari, giro la ghiera sull’impostazione automatica e decido essere io a immortalare la scena e la macchinetta fotografica a provvedere ai noiosi metodi.
Centinaia di palloncini colorati volano leggeri nell’area, accentuando il silenzio, e il peso di entrambe le cose.
Mi sento in pace con loro e la loro stessa pace.
Che poi, per una cinica come me, è tutto un dire.
Controllo il risultato dei primi scatti. Sono soddisfatta, l’effetto è proprio quello sperato. Finisce che ignoro pure il risultato, non controllo più il monitor, lo farò a casa direttamente da quello del  pc- penso- e continuo a scattare.
Un bambino comincia a urlare. Sua madre è seduta su una panchina poco distante, chiacchiera con delle amiche. Ha la messa in piega perfetta, è truccata pesantemente, vestita come la moda chiede, parla di frivolezze perché il suo status glielo impone. Ignora totalmente il figlio che prende a sbattere i piedi e a dar  spettacolo coi migliori dei suoi capricci.
M’incazzo come una iena.
La mia ombra si proietta sulla sua tinta, sul suo rimmel scuro, fino a coprire il suo tacco 16, il vestitino a fiori finto vintage anni ’70 che fa molto freedom, ed esalta forme non più da ventenne.
Le parlo con voce quasi impercettibile, come quando da piccola dovevo mormorare segreti all’orecchio di un’amica.
Le faccio una domanda, concisa come è nella mia natura.
Le chiedo scusi, ma tutto questo non le pare profondamente irrispettoso?
E lei sale su tutte le furie, sbraita come una dannata.
Mi è impossibile descrivere l’espressione del suo viso perché un forte raggio di sole punta i miei occhi, scalda le mie guance, che non so se tutto quel calore è dato dal mio tormento o dalla palla di fuoco che splende nel cielo.
Una vertigine, e poi sublimo.
Il mio corpo scema lentamente dalla scena, dopo pochi istanti prendo coscienza del fatto che, sto solo sognando.
E nella realtà dei fatti c’è davvero troppa luce, sobbalzo sul letto con un tamburo in mezzo al petto che fermarlo è un casino, sudo.
Merda, mi sono addormentata, no –non- a- me –sono-appena- stata- assunta- che- cazzo- gli –racconto- ora- al- boss?
Impugno il telefono ancora grondando, le mani che tremano, guardo l’ora.
Le 4.30.
Ce la posso fare a timbrare il cartellino per le 5.20.
Certo.
Se fosse domani, ovvio. Domani mattina, non oggi pomeriggio.
Devo impostare l’orologio con il formato 24 ore, quello da 12 non fa per me, chiaro.

Stavo meglio dieci anni fa, prima di cominciare a entrare nel fantastico mondo del lavoro.
Ai tempi in cui mi drogavo pesantemente, intendo.
Almeno potevo non dare la colpa allo stress quando il mio cervello decideva d’abbandonarmi senza preavviso.


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